Da Carlo non è che si mangiasse poi così bene.
Ci si andava per abitudine, per amicizia, per il gusto della rassicurante ripetizione. Il bollito due volte su tre non era male, la trippa mangiabile, le cotolette cartonate, le patate fritte finte come i soldi del monopoli, ogni azzardo gastronomico da evitare con cura.
A volte il titolare dell’omonima trattoria si cimentava in imprese al di sopra della propria forza. Energie distolte dalla pasta alla grassa, sperimentazioni che andavano oltre la norma.
La pasta alla norma, s’intende.
Carlo era fatto così, non amava cullarsi sugli allori (e neppure sulle mente), accontentarsi di un complimento ricevuto anni addietro per una polpetta promossa. A volte guardava i programmi della Clerici, registrati, perché a quell’ora lavorava sempre, e fermava il video registratore per osservare con cura la grandezza del taglio della pancetta, il grado di rosolatura dello spinacio, la quantità di vino Tavernello utilizzato per sfumare.
Nella sua cucina tutto questo era bandito, come molta della clientela, peraltro.
Un vecchio e ignorato cartello, con divieto di fumo, era stato manipolato da mano anonima e burlona: vietato sfumare, era diventato.
– Carlo, quante volte te l’abbiamo detto che il maiale prima di farlo al forno devi accertarti che sia morto in questo secolo?
E giù risate a bocca aperta, con ostentazione di fagioli cannellini in masticazione.
Carlo era vedovo, da quando la signora Gina aveva deciso, chissà perché, di lasciarci le penne mentre preparava il sugo della amatriciana. Le sue, penne, però, non quelle numero 73 Barilla.
Il dolore non impedì a Carlo di continuare a lavorare, e la sua numerosa clientela in segno di lutto osservò dieci minuti di non rutti.
Fu la figlia Shara, con l’acca in mezzo per un errore di uno sciatto impiegato all’anagrafe (“Mi raccomando – insistette Carlo – Sara con l’acca, ci tengo!”), a prenderne il posto in cucina.
Solo che la giovane e procace unica erede, era assai più utile alla cassa, dove corpulenti camionisti e operai ormonizzati apprezzavano con pazienza le grazie della neo maggiorenne, e maggiorata, Shara, creando file ingiustificate. Molti non mangiavano neppure, andavano direttamente alla cassa per pagare.
In cucina era negata, non aveva mai nemmeno cotto un uovo, ma il padre riteneva che l’arte culinaria si tramandasse anche attraverso i geni, portando ad esempio Christian De Sica, Luca De Filippo e il padre di Sorrentino, il portiere del Palermo.
Di meglio non aveva trovato.
Col tempo, la pervicacia, la mancanza di destini alternativi, trasformarono Shara da cuoca improbabile a sufficiente, poi a interessante, e infine a stuzzicante, come in una carriera militare raccomandata.
Le sgaloppine conobbero compagni di viaggio nuovi, come la salvia o il marsala, per i peperoni si aprirono orizzonti inesplorati e clienti entusiasti, l’uovo non servì più soltanto per la pasta al forno, ma si appropinquò nella carbonara e nell’impasto delle polpette, fornendo scenari diversi dalla fornitura di baseball.
Insomma, la gente veniva da ogni dove per andare da Carlo e Shara, che nel frattempo aveva costretto il padre alla modifica nell’insegna. E visti i risultati, aveva ottenuto ragione. Sociale, tra l’altro.
Per anni le cose andarono a gonfie vele; da trattoria fetente per palati poco fini e tutte le tasche, si trasformarono in locale cult, dove l’alta borghesia cittadina si accollava lunghe attese all’umido pur di assaggiare i polipetti in umido di Shara, gli involtini di melanzane di Shara, la trippa al sugo di Carlo.
A cui era rimasto soltanto l’onere di un paio di piatti tradizionali, e il servizio ai tavoli, come un pivellino qualsiasi.
Il conto ne valeva il servizio, e a fine mese padre e figlia potevano godere di introiti inattesi.
Sembrava una favola senza intoppi, fino a quando le cose svoltarono.
Per mesi resistettero alle lusinghe di pseudo imprenditori allettati dal marchio più “in” degli ultimi anni, offerte a molti zeri per rilevare la maggioranza del locale, a parole senza snaturarlo.
Poi, d’improvviso, gli squali diventarono tanti, accerchiarono la loro imbarcazione famelici e feroci. Tutti in 3D, peraltro.
La crisi cominciò a mordere, il proprietario del loro immobile a capire l’antifona, le mode a virare leggermente verso nuovi stimoli: apericene, sushi bar, cucine etniche e cugine scollacciate.
In pochi mesi una grande catena di fast food decise di rilevare locale, clientela e, in un insospettato barlume di umanità, anche Shara e Carlo. Fu il colpo finale, il braccio sul tavolo piegato da un avversario forte e tignoso, resistente e tenace.
Carlo stette una intera giornata al cimitero, sulla tomba di Gina chiedendo perdono in lacrime. Niente più broccoli in tegame, spezzatini, bucatini con le sarde. Li attendeva una vita lontani dal sapore indefinito delle interiora bollite, dal cannellone molliccio, dalla salsiccia al sugo.
Lei si sta adattando alla novelle couisine richiesta dai nuovi proprietari. Imparerà, come ha fatto in passato.
Carlo ha difficoltà con i turisti e i nomi di alcuni piatti.
Com’è che si dice fuagrà?
Si lascia leggere, non capita spesso. Poi è settoriale ma non usa un linguaggio settoriale (non annoia uno come me che mangia poco fuagrà). E la vicenda ha anche una metalettura sociologica.
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