Marco Pomar

Fare la risonanza magnetica è un’esperienza unica.
Vietata ai soggetti claustrofobici e a quelli senza fantasia, si tratta di un esame dove ti infilano mezzo nudo in un tubone appena più largo di te, aperto sopra la tua testa il minimo sindacale, giusto per non urlare dopo pochi minuti, e ti tengono per un periodo indefinito (si narra una trentina di minuti, ma il tempo, si sa, è relativo) con un campanello in mano qualora perdessi pazienza e fantasia, e una serie di farfalline colorate appiccicate sul tetto del tubo, come se avessero a che fare con un bambino di sei anni.

Ma la cosa che ne attesta in via definitiva lo status di tortura internazionale, un gradino sotto Guantanamo e appena sopra una puntata di Porta a porta, sono i suoni che sei costretto a sopportare in quei presunti trenta minuti.

Come “entrée” c’è un rumore di catena di montaggio un po’ distante da te, continuo e a stantuffo.
Se ti concentri sembra di sentire uno che ripete in loop “zighidon zighidon zighidon”.

E fin qui è niente.

Poi si alternano, si sovrappongono e ritornano i suoni più disparati, che vanno dalla partenza del vapore per Napoli ai lavori per la metro di viale Lazio, dal campanello suonato da un postino nervoso, al clacson di quello dietro di te due secondi dopo il cambio di colore al semaforo.
Poi c’è l’avvio della quinta di BeethoVen ripetuto più volte, e l’incipit di Fra Martino campanaro suonato da mio nipote di sei anni, un pezzo dei Carmina Burana e un fax amplificato, una sega elettrica che divide in due un platano, l’allarme di casa dei vicini quando sono in vacanza, una forchetta che gratta sulla lavagna e un centrifugato di mele e carote.

In pratica ti fa compagnia questa colonna sonora:

zighidon zighidon zighidon
martello pneumatico della metro di viale Lazio
carmina burana
zighidon zighidon zighidon
fax, postino incazzato, fra Martino campanaro
zighidon zighidon zighidon
centrifugato, postino sempre più incazzato (e apritegli, cazzo!), clacson al semaforo verde
zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon
allarme vicini, postino esaurito, forchetta, vapore per Napoli
zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon zighidon
Beethoven che suona con la forchetta sul fax dei vicini più volte
zighidon
Centrifugato della quinta di Beethoven a fra martino campanaro e del postino segato in due con mele e carote.
zighidon zighidon zan zan!

Già finito.
Il tempo vola quando ci si diverte.
#zighidon

cretino

– Buongiorno, devo notificarle un avviso.
– Che palle. La solita multa?
– No, si tratta di una notifica di connotazione personale.
– Non la seguo.
– Un decreto ha stabilito che vengano notificati alcuni avvisi di cretinaggine a cittadini particolarmente meritevoli dell’epiteto in questione.
– Non so perché, ma ho la sensazione che mi abbia appena dato del cretino.
– Complimenti. Quasi quasi non lo meriterebbe. Ma non sta a me. Io devo solo notificarle l’avviso che lei è un cretino. È contento?
– Ma scusi, perché proprio io? Ha conosciuto il ragioniere Mazzapelle, del primo piano? Se non notificate prima a lui, mi rifiuto di firmare!
– Guardi che non è una gara, egregio amico. Da qualche parte si doveva cominciare, e lei è uno dei primi. Io sarei contento, al suo posto.
– Allora se lo notifichi da solo, scusi.
– Non posso. Il decreto porta il suo nome, lei da oggi è cretino per decreto. Anzi, per decretino, direi.
– Abbiamo pure il messo spiritoso.
– Guardi che io il mio posto l’ho vinto per concorso.
– E che c’entra, scusi?
– Lei dice che io ci sono stato messo. E si sbaglia.
– Lei non è stato messo. Lei è messo!
– E lei è cretino. Adesso posso dirglielo.
– Come si permette?
– È scritto qui.
– Ma se io mi rifiutassi di firmare? Perché dovrei, sarei un cretino a firmarlo.
– Appunto.
– Appunto cosa, scusi?
– Mi ascolti. Lei è un cretino, da oggi, con tanto di patente. Se non dovesse firmare, metterebbe in discussione l’essenza stessa della sua cretinaggine, mi segue?
– No.
– È normale, perché lei è cretino.
– Ma così non ne usciamo, signor messo.
– Io non mi lamenterei, fossi in lei. Di fronte a tanti cretini de facto e non de iure, lei almeno è schedato. È, come dire, un cretino DOC, a denominazione di origine cretina.
– Senta, ma io che ho fatto di così importante per essere un cretino? Io non do’ fastidio a nessuno, mi faccio il mio, pago le tasse…
– …ecco, forse si sta rispondendo da solo.
– Ah, perché chi rispetta le leggi è un cretino, secondo lei, razza di messo raccomandato?
– Lo sta dicendo lei.
– Si, ma lei mi sta bollando come cretino ufficiale. Da oggi non potrò più andare dal salumiere, dal giornalaio, dal fruttivendolo. Chi lo sente quello?
– Stia tranquillo, a breve la notifica arriverà a molti. Non la prenderei in giro, se fossi in loro. Magari un giorno mi toccherà portare una notifica uguale anche a loro, chi lo sa?
– E nel frattempo io che faccio, lo scemo del paese?
– No, casomai il cretino.
– Ascolti, faccia finta che non mi ha trovato, sia un messo buono, se ne vada a messa, si confessi, vedrà che nessuno le dirà niente.
– Ma come faccio? E poi perché? In una società in crisi di identità e valori, lei almeno ha una certezza: è un cretino. Le pare poco?
– Mi pare troppo. Lei è un messo, ma tra i due io sono messo peggio.
– Sia gentile, signor cretino, vedrà che fino a quando non si diffonderanno i decreti, lei acquisterà popolarità, la cercheranno tv, giornali, internet, donne…
– Donne cretine, però.
– Anche. Dia retta a me, accetti la notifica. Ascolti un cretino…
– Anche lei? Collega?
– Ma no, si fa per dire.
– Va bè, dove devo firmare?
– Qui. Ecco… no, ma dove ha firmato?? Non vede che c’è lo spazio per la firma? Ma lei è un cretino!
– Si. E da oggi esercito, anche. Grazie messo. Futuro collega.
– Ma vedi che razza di gente. Cretino preciso!

cappuccetto
Cappuccetto rosso era un’adolescente comunista e ribelle. Viveva nel quartiere San Lorenzo, a Roma, in un centro sociale occupato. I genitori, due cinquantenni dell’opus dei, l’avevano cacciata di casa dopo anni turbolenti, il giorno che l’avevano scoperta trombare con il parroco venuto a benedire la casa.
Da allora Cappuccetto aveva rapporti solo con la nonna, intanto perché non le lesinava mai una carta da cinquanta, e poi perché la vecchia era tosta, anche lei No Tav e compagna alla grandissima.
La nonna Adele viveva da sola, anche se da quando era vedova non si faceva mancare nulla, soprattutto la compagnia maschile, per lo più occasionale. Solo che viveva alla Prenestina, e per Cappuccetto era un viaggio, ricco di insidie e di fasci di casa pound.
Un giorno nonna Adele la chiamò, voleva portati del rosbiff ungherese, uova di lompo e un Ferrari d’annata. Doveva avere giri quella sera, e non stiamo parlando di verdure bollite.
Adele prese tutto a credito dal pizzicagnolo sotto casa, roba il più simile possibile a quella desiderata dalla vecchia, e si incamminò verso la meta, cambiando due autobus e una metro, maledicendo tra se quel fascio di merda del sindaco.
Al capolinea scese e si accollò quel chilometro da fare a piedi, con un vento freddo che le entrava sotto il cappuccetto, arrossando anche le gote e gli occhi.
Il primo che incontrò fu un vecchio guardone del quartiere, detto Bellicapelli per la sua pelata integrale.
– An do vai, cocca de mamma? Viè qua che se famo na pizza bianca insieme.
– Grazie, ho premura.
– E daje, che la pizza mo t’aa dò davero davero se nun me fai vedè manco na sisa!
Cappuccetto ormai aveva testato su se stessa l’assoluta inoffensività di Bellicapelli, tanto disgustoso quanto caricato a salve. Non gli diede corda, mentre quello continuava a parlarle in un crescendo di laidità e bava.
Superato il primo ostacolo si imbatté in un gruppo di teppistelli neri e borchiati.
Il secondo livello fu più complicato, come nei videogiochi, ma Cappuccio se la cavò ancora una volta, dando fondo al suo ottimo allenamento nella velocità breve.
Il terzo girone era rappresentato da un manipolo di vecchie comari, la cui arma principale constava di cattiverie assortite, supportate da fatti reali, conosciuti chissà come.
– Anvedi chi c’è sta, a principessa sur pisello!
– Per me nun è mica vero! Nun ce sta er pisello sotto sta principessa, ce ne stanno a migliaia!
– Tale nonna, tale nipote, me venisse da dì.
– Epperchè i genitori se stanno affà li cazzacci loro. Sta povera creatura se deve pure guadagnà quarcosa, mica po’ annà ad Arcore, scusate.
– Ennò che nun po’. Là se chiamano escorte e se fanno pagà na cifra, li mortacci loro. Qui da noi sò mignotte.
Cappuccetto si mise a cantare per non sentire le vecchie stronze, fece ancora pochi metri e finalmente arrivò a casa di nonna Adele.
Entrò nel portone con le chiavi e salì all’ammezzato del vecchio e maleodorante palazzo.
Appena in casa si diresse in camera da letto, dove vide mezzo viso nell’ombra, quasi interamente coperto dal piumone.
– Nonna, dormi?
– Eh?
– Nonna, ma che voce roca che hai! E poi che ti sono cresciuti i baffi?
– Nun so tu nonna, so Armando. Er macellaio dell’angolo, se conoscemo Capuccè!
– Oh, Armà, come te butta?
– Sto bbene. Nonna tua sta ar trucco, che hai portato, cose buone? Puoi restà a magnà co noi, ho fatto na pajata che metà abbasta!
– No, Armando, ti ringrazio. C’abbiamo riunione al centro sociale per organizzare la manifestazione di sabato davanti a Montecitorio. Ci vieni anche tu? Faremo un bel po’ di casino.
– Ma io so vecchio, Cappuccè. Ormai semo stanchi, annate avanti voi che siete regazzi.
Dopo pochi minuti di convenevoli nonna Adele tornò dal bagno, giovanile come un’attrice del secolo passato.
– A cocca mia, viè da nonna tua. Ma quanto sei caruccia. Quanno me porti un bell’omo vero? No sti ragazzetti che te girano attorno?!
– A nonna, ancora co sta storia. Nun li filo proprio de pezza sti ragazzetti, come li chiami tu. Sto a pensà ar collettivo, alle manifestazioni, alla lotta. Come dice Armando, se nun ce penzamo noi chi lo deve da fa?
– Vabbè, lassamo perdere. Io alla tua età già facevo l’ammore co nonno tuo!
Cappuccetto tagliò corto, incassò la mezza piotta più le spese, e tornò indietro nel suo percorso inverso, con le insidie ormai depotenziate.
Incappò solo nel Lupo, un suo ex fidanzato mai rassegnato che provò ancora ad attaccare bottone.
Ma non ci fu verso, e ognuno visse nel suo mondo, mai veramente felice o contento.

vecchio

I vecchi subiscon l’ingiurie degli anni
Non sanno distinguere il vero dai sogni
I vecchi non sanno nel loro pensiero
Distinguer nei sogni il falso dal vero
(Francesco Guccini – Il vecchio e il bambino)

Simona aveva premura quella mattina. Leggero ritardo nell’orario per prendere l’autobus che da Monreale l’avrebbe condotta a Palermo. Affrettò il passo, quel tanto che le concedevano i tacchi alti.
Era appariscente come sempre, con la sua folta capigliatura bionda, il vestito bianco sotto la giacca rossa. Ormai i locali la conoscevano, non li stupiva, benché continuassero a guardarla con discreta lascivia.
Il pullman era ancora al capolinea, e Simona tirò un sospiro di sollievo.
Stava per entrare, quando si sentì bloccare il braccio.
Era un signore anziano, più vicino agli ottanta che ai settanta.
Simona ebbe un moto di fastidio, non altro.
– Cosa fa, mi lasci!
Il vecchio allentò la presa, e si mise negli occhi uno sguardo implorante. C’era qualcosa che la spinse a non liquidare quella silenziosa richiesta di aiuto.
Forse ebbe il tempo di ripensare a tutte le persone anziane che aveva incontrato nella sua vita. Suo nonno morì quando lei era ancora troppo piccola, e Simona da allora si attaccò in maniera quasi morbosa alla nonna, visto che i vecchi muoiono e bisogna goderseli finché stanno al mondo.
Poi morirono gli altri nonni, e i suoi genitori invecchiarono. Tutti modificavano il loro sguardo, perdendo mordente, vivacità e cattiveria, come un soprano senza più acuti.
Simona guardò quel vecchio sconosciuto mentre il motore del pullman metteva premura.
– Mi dica, voleva qualcosa da me?
L’anziano cominciò a lacrimare, le parole indugiavano.
L’autista diede un colpo di clacson, discreto.
– Signorina, mi scusi… non volevo disturbarla. Lei mi ricorda tanto una persona, sa?
Cosa dire in occasioni come quella? Cosa fare per uscire da un imbarazzo imprevisto?
– Si… Guardi, mi scusi, mi parte il pullman. Devo lavorare…
– La prego. Solo un caffè. Poi la lascerò andare.
A volte si fanno cose contro la logica, contro il buon senso e il corso già scritto della nostra vita. Ma è proprio per quello che Simona decise di dare ascolto a quell’uomo. Per non seguire un copione stabilito da altri, per concedere rispetto e ascolto a chi, per una volta, glielo chiedeva con lacrime e speranza.
Fece un cenno all’autista, che chiuse la porta e si avviò verso Palermo.
– Con piacere. Andiamo.
– Grazie signorina Liliana.
– Mi chiamo Simona, piacere.
– No, per favore.
– Come no?
– Per mezz’ora mi faccia sognare. Liliana avrà avuto la sua età, stessi capelli, stessa espressione, stesso corpo. O forse è l’età che gioca brutti scherzi. Non lo so.
Ecco svelato l’arcano. Una banale somiglianza, che le avrebbe fatto perdere un’ora di lavoro. Che stupida a lasciarmi irretire da un povero vecchietto. Tutto questo per non sapere dire di no.
– Venga, sediamoci là. Non le farò perdere molto tempo Liliana. Ho una storia breve da raccontarle. Poi andrà via, non la disturberò più.
– Non si preoccupi, signor…?
– Raspetti Michele. Onoratissimo.
– Non si preoccupi signor Michele. Il prossimo pullman è tra un’ora. Abbiamo il tempo che vogliamo.
Ordinarono un cappuccino lui e un’orzata lei. Raspetti sembrava non avere fretta. Forse l’annuncio di quei sessanta lunghi minuti a sua disposizione lo avevano tranquillizzato. Dovevano essere più che sufficienti.
Si gustò il suo cappuccino, poi si asciugò la bocca e cominciò il suo racconto.
– Cinquanta anni fa. Più o meno. La vidi per la prima volta a pochi metri di distanza da dove era lei, signorina. Restai colpito, non avevo mai visto una bellezza del genere. E si che di donne ne avevo avute, non ero più un ragazzino impacciato. Ma quando apparve Liliana tornai adolescente, goffo e afono, timido e scostante. Non riuscivo nemmeno a guardarla, e lei poi mi disse che questa cosa la incuriosì. Era arrivata da pochi giorni a Monreale, i suoi genitori erano venuti a vivere qui, suo padre era diventato il direttore della filiale locale della banca. Tutti non facevano che guardarla, chi le fischiava dietro, i più cafoni tra i miei concittadini, chi cercava approcci di ogni tipo, galante o diretto. Lei scelse me. Qualche giorno avanti, senza che io fossi più riuscito a guardarla, mi si avvicinò al bar, e mi chiese se le offrivo una coppa del nonno. Non lo dimenticherò mai. Gliela comprai senza dire una parola, e la guardai mentre con il cucchiaino a paletta la consumava lentamente. Lei rideva, mi rideva in faccia, si burlava della mia imbranataggine. Poi gettò la coppetta non ancora vuota, mi prese per mano, ricordo di essermi sentito un eroe davanti a tutto il paese, e mi portò a fare una passeggiata, verso il belvedere.
Lì finalmente cominciai a parlare, e fui un fiume in piena. Credo di averle raccontato tutti i miei trent’anni di allora, saltando episodi inutili, il mio anno di militare, qualcuna delle mie conquiste, le malattie esantematiche. Ci baciammo dopo nemmeno un’ora, e fu il più bel bacio della mia vita.
Il tempo galleggiava come un’astronauta esperto, i suoni arrivavano ovattati, la sua lingua si faceva avanti nella mia bocca come sapesse la strada. Penso di avere perfino sentito le campane.
Me ne innamorai perdutamente, come non pensavo si potesse fare.
Era più giovane di me di una decina d’anni, ma era decisamente più matura.
Aveva solo un difetto, le piaceva piacere. Io che non avevo mai sofferto di gelosia ne fui accecato.
Si mostrava per quello che era, una meraviglia di ragazza, e non disdegnava complimenti, approcci, corteggiamenti, che incoraggiava con sguardi e non solo.
Lei mi giurava eterno amore, ma io friggevo quando non era con me. Cominciai a fantasticare di tutto, immaginandomi accoppiamenti selvaggi con metà del paese, che, nella mia mente malata, mi rideva dietro.
L’amore non basta, pensai.
Avevo tutto per potere essere felice, e invece mi dannavo per ciò che accadeva soltanto dentro i miei sogni, in situazioni nate e morte dentro la mia testa.

Michele fece una pausa. Piangeva in silenzio, e guardava negli occhi Simona. Da parte sua lei lo osservava rapita, chiedendosi dove sarebbe andato a parare.
– Non ce la feci a reggere il peso di quella gelosia. Mi dispiace, signorina.
– La lasciò andare via?
– Magari.
Un brivido percorse la schiena di Simona. Una di quelle sensazioni sgradevoli a cui non si vuole dare ascolto, ma che ti travolgono.
– Che vuol dire magari, cosa fece?
– Doveva essere mia per sempre, e non c’era che un modo.
– Oddio, quale?
– La invitai a pranzo. Sembrava un giorno come tanti altri, io e lei a casa mia. Mangiammo, facemmo l’amore più volte, prima con dolcezza, poi con rabbia. Una rabbia che non la lasciò indifferente. Mai ero stato così aggressivo nell’intimità, e lei lo percepì. Forse qualche secondo prima che con un abat jour le spaccassi il cranio.
– Ma cosa dice? Ma lei è pazzo!
– Si, lo ero. Smise di respirare dopo quattro o cinque colpi. Ricordo come la mia lucidità in quei momenti mi fece paura. Riuscivo solamente a pensare a quanto non avrei più sofferto per amore, nessuno le avrebbe più guardato il culo, nessuno l’avrebbe posseduta mai più. L’unica cosa era sbarazzarsi del corpo, ma avevo pensato anche a quello. Non ce l’avrei fatta a mangiarla tutta in una volta, ma disponevo di un ampio surgelatore. È incredibile di quanta carne ci cibiamo durante l’inverno.
– Ma lei è un mostro, che cosa vuole da me?
– Non voglio nulla signorina, non ho mai pagato per le mie colpe, Liliana non fu mai trovata e io me la cavai con un paio di interrogatori maldestri. I film, mia cara, sono un’altra cosa. E anche le coscienze, si può vivere benissimo se si ignora il rimorso.
Adesso il vecchio non piangeva più, e le sue parole stonavano in quel corpo minuto, in quel viso segnato, in quegli occhi inespressivi.
Simona era terrorizzata, sentiva un conato salire fino alla gola, la nausea prendere campo. Si alzò da quel tavolino con tutto l’orrore del mondo. Andò via quasi camminando all’indietro, guardando quell’assassino freddo e cinico, in un misto di disprezzo e paura.
– Ma dove va signorina, la storia non finisce qui.
– Si fotta, uomo di merda!
Si mise a correre in direzione del pullman, inciampando e rompendo un tacco. Sentiva il cuore in gola, si avvicinò ad una aiuola e rigettò l’orzata.
Stava per riprendere a respirare, quando sentì una mano sulla sua spalla, fredda e inattesa. Lanciò un urlo inumano, lungo e liberatorio, accompagnato da un salto in avanti che la fece cadere sul suo stesso vomito.
Un altro uomo anziano la guardava con aria interrogativa, mortificato per averla impaurita.
– Signorina, mi perdoni. Non volevo spaventarla. A lei cosa ha raccontato, che l’ha tritata a pezzettini?
– Eh? Co…come?
– Si, il vecchio Raspetti. Ogni volta se ne inventa una nuova, sempre per spaventare qualche donna diversa. Lo lasci stare, è l’arteriosclerosi. Nemmeno i suoi figli gli danno più retta.
Simona si pulì il vestito con movimenti concitati, come meglio poteva, si alzò in piedi e cercò la via di casa. Un giorno di riposo non le avrebbe fatto male.
Sentì sul viso un vento fresco che le dava un po’ di sollievo ma non riusciva a togliersi dalla mente quel vecchio matto.
Camminava con passo incerto per via del tacco rotto e inciampò in un giornale accartocciato. Una copia del Giornale di Sicilia che giorni dopo avrebbe pubblicato un articolo su di una ragazza scomparsa nel nulla a Monreale, come cinquant’anni prima. Con la sua foto tessera.

E poi disse al vecchio, con voce sognante
Mi piaccion le fiabe, raccontane altre…

confessionale
– Padre, voglio confessarmi.
– Si, lo immagino. Nel confessionale è difficile che si parli di calcio.
– Ha ragione, mi perdoni. La verità è che per me è la prima volta.
– Eppure dalla grata e dalla voce non mi sembri giovanissimo, figliolo.
– Ho 47 anni, padre. Ho pensato fosse venuto il momento di liberarmi dai miei peccati.
– Si, figliolo, ma la caserma dei carabinieri è due isolati più avanti.
– Mi ascolti, ho bisogno di fare i conti con la mia coscienza.
– Apriti, figliolo. Vediamo che hai combinato.
– Mi conferma che c’è il segreto professionale?
– Assolutamente. Vai, mi sento pronto.
– Allora: ho rubato.
– Settimo.
– Bravo, quello!
– Ma che siamo a un quiz? Vai avanti!
– Ho desiderato la donna d’altri.
– Ho capito, se li hai fatti tutti vinci un’acquasantiera nuova! Non funziona così, figliolo.
– E gliel’ho detto che sono nuovo, padre!
– Dimmi cosa hai fatto, perché, quando, se sei pentito mi fai i nomi di altri peccatori, se c’è la prescrizione la fai franca, altrimenti devi fare la penitenza. Questo a grandi linee.
– Ho rubato un album di figurine calciatori dal giornalaio dell’altro isolato. Gli ho detto che l’avrei pagato dopo e sparii.
– Ci può stare.
– Che fa, mi assolve?
– Intanto continua.
– Ho rubato la maglietta del Palermo. In un negozio di articoli sportivi. Andai in camerino a provare una camicia e mi lasciai sotto la numero 10. Geniale, no padre?
– Senti, io ho da fare. A che anni siamo arrivati?
– Veramente questa cosa risale alla settimana scorsa.
– 10 ave Maria.
– Non ho finito.
– Non importa. Poi si sommano alla fine.
– Ok. Ho parcheggiato con il tagliando degli handicappati.
– E questo che peccato è?
– Non lo so, ma mi sembrava brutto. Dice che si può fare?
– No che non si può fare. Ma non so dove collocarlo. Truffa? Ma non c’è il comandamento!
– Sarà per questo che assolvete tutti i politici, padre.
– No, quello è per l’8 per mille. Ma che ne vuoi sapere tu?
– Poi ho tradito la mia fidanzata.
– 20 pater noster.
– Più volte.
– 20 per ogni trombata, allora.
– Padre!
– Dimmi, figliolo. Se non c’è altro io andrei.
– No, veramente ci sarebbe.
– Senti, dilli tutti che poi facciamo un forfait. Ma fai in fretta.
– Allora: spero di non dimenticarmene nessuno. Ho detto ti amo a una donna che non amavo; ho trascurato un amico in difficoltà. Era sempre depresso, non ce la facevo più. Ho desiderato la morte altrui. Era un raccomandato che mi ha fottuto il posto di ricercatore all’università. Ho messo i funghi nello spezzatino. Ma una volta sola, padre, e non lo rifarò più. Non posso garantire lo stesso per il ricercatore raccomandato. Ho desiderato la moglie di Armando. Ma se la vedesse anche lei mi assolverebbe perché il fatto non costituisce reato. Ho ingannato Marika. Non le ho detto che ero fidanzato per portarla a letto. Sono pentito, padre. Non ne è valsa la pena, contrariamente a quello che mi dicevano tutti. Ho falsificato il curriculum. Ho scritto ottima conoscenza della lingua inglese, e invece lo parlo peggio di Renzi. Ho rubato cinquemila lire dal portafoglio di mia nonna. Ho insultato uno sconosciuto che mi ha tagliato la strada. E poi ho scoperto che era il padre di un mio compagno di scuola, così che dagli insulti siamo passati ai saluti alla famiglia. Le seghe credo non siano peccato, altrimenti mi sa che anche voi preti marcireste tutti all’inferno…
– Lascia stare,figliolo. Continua…
– Ho gettato la spazzatura fuori dagli orari consentiti. Ho trovato un portafoglio pieno, ma l’ho restituito. Vuoto, però. Ho staccato la spina a mio nonno. Soffriva e me l’aveva chiesto in un orecchio. Adesso è indagato un infermiere. Ho pagato in nero il fontaniere. Non ho dichiarato un pagamento per una consulenza esterna. Questo però me lo sono dimenticato, vale lo stesso come peccato?
– …
– Padre, mi sente?
– Eh?
– Ma che fa, padre? Vedo una lucina.
– No, è che sei lungo. Non sono abituato a queste confessioni fiume. Ero andato un attimo su facebook. Comunque ti ho sentito. Facciamo 100 pater noster e 400 ave Maria. E ti absolvo in nomine pater, filius…
– Tutti insieme, padre?
– Tutti insieme chi?
– No, dico, posso rateizzarli o devo dirli di fila, come le preghiere dei buddisti? Nel caso dovrei prendermi un paio di giorni…
– Ti sia consentita la dilazione. Ma ricorda: è la somma che fa il totale!
– Matteo, verso dodici?
– No, il Principe De Curtis.
– Grazie padre. Lei mi è stato di grande aiuto, mi sento un uomo nuovo.
– Vai con Dio. E ricorda che se metti di nuovo i funghi nello spezzatino, brucerai all’inferno.
– Mai più padre.
– Bravo. E chiedimi l’amicizia. Che quello stronzo di Don Stefano ha più amici di me.
– Sarà fatto.