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Don Michele stava seduto in una poltrona in pelle marrone scuro. Del tutto fuori luogo per una macelleria.

All’esterno del locale una lunga coda, più per parlare con il Don che per il tritato di secondo taglio. Anche se, una volta entrati, pareva brutto uscire da “Il paradiso della carne” senza almeno una fettina, due callozzi di salsiccia, un involtino panato.

Il don aveva un’età indefinibile che andava dai settanta ai duecentodieci anni. Verosimilmente una media tra le due.

Non si capiva se sentiva ancora e quanto,  l’unica cosa certa era che non parlava.

Oddio, non è che avesse parlato molto nella sua vita. Era tutto un ammiccare, uno scuotere la testa ora verso il basso ora verso l’alto, uno schioccare di lingua, un aggrottare di sopracciglia.

Poi stava all’interlocutore interpretare correttamente, evitando pericolosi fraintendimenti, come quando Paluzzo u’ nico prese un colpo di tosse di Don Michele come un conferma alla richiesta se uccidere il fratello, e dopo fu tardi per recuperare lo sbaglio.

La processione era continua e variopinta: ci stavano grasse signore in attesa di avere un responso dal don sulla fedeltà del proprio marito, giovani disoccupati speranzosi di una buona parola per un lavoro qualsiasi, perdigiorno che cercavano di ottenere pareri sulle partite su cui scommettere il fine settimana. Il codice, rispetto a questi ultimi vaticini, era universalmente conosciuto: vittoria della squadra di casa chiusura di entrambi gli occhi, vittoria esterna innalzamento delle sopracciglia e testa all’indietro, pareggio smorfia con la bocca. Pareggio con gol smorfia con bocca e naso arricciato.

Quando qualcuno giocava grosse somme su una bolletta e la perdeva per un gol al novantesimo, se mai avesse osato protestare con il Don, si beccava una boffa in faccia di Pino u’ fetenzia, l’attendente del boss.

Don Michele esercitava da decenni il suo potere nel quartiere, con la forza della parola non detta, con gesti delle mani tanto lenti quanto definitivi.

Ma lo scorrere delle stagioni non risponde a logiche di connivenza, e il tempo non ha rispetto di nessun boss, così che il degrado divenne sempre più evidente. La fila era meno numerosa, il don meno reattivo, le polpette meno saporite.

Fino a quando, un triste giorno, Don Michele passò a peggior vita, che migliore di quella da ossequiato, potente e prepotente sarebbe stato difficile. Veglie funebri, commenti social di elogio della statura morale e umana del personaggio, qualche vigliacco che voltò le spalle alla salma dopo averlo ampiamente ricoperto di saliva in vita.

L’assenza di un successore all’altezza, però, fece sì che la morte di Don Michele non potesse essere assorbita con disinvoltura. Si stabilì di imbalsamare la vecchia carcassa, che, a ben pensarci, pareva imbalsamata da un bel po’,  non sarebbe cambiato poi tanto.

E in effetti, vuoi per paura di ritorsioni della cricca mafiosa ancora in auge, vuoi per la cieca devozione del popolo bue, la fila si riformò come prima, scommettitori di partite compresi.

Gente che, con indomito sprezzo del ridicolo, si presentava davanti a una mummia a chiedere se la Juventus avrebbe battuto l’Inter e con quanti gol di scarto.

La pantomima andò avanti per qualche mese, fino a quando Pino u’ fetenzia conquistò la fiducia del mandamento, e il potere assoluto.

Eppure ancora oggi, a distanza di dodici anni, se vi capita di passare  da “Il paradiso della carne” è facile imbattervi in un balordo, un ubriacone, una cicciona, che domandano a una specie di cartonato malmesso: “Baciamo le mani, don. Ma secondo lei che fa, il Napoli ci vince a Milano?”