calcetto

super santos

Da piccolo non mi piaceva il calcio.
Tutti gli altri bambini parlavano di Inter, Milan, Juve, e non riuscivo a capirne il senso.
Cioè, sapevo di che parlavano, ma non mi riuscivo ad appassionare. A casa mia nessuno lo seguiva, se non forse per qualche partita dell’Italia ai mondiali.
Ricordo vagamente un divano distrutto da mio fratello e i suoi amici in occasione di Italia Germania 4-3, giocata mentre io dormivo per via del fuso.
Anche le partite di calcio in garage, non mi davano nessuna emozione, ne restavo ai margini.
Poi, ad un certo punto, non so bene perché, provai ad incuriosirmi. Forse per non rischiare di essere completamente isolato da un mondo fatto di scambi di figurine, sfottò da tifosi, giocate di gruppo.
Andavo già alle medie, ricordo che il primo campionato che seguii fu quello del Lanerossi Vicenza dei miracoli, con Paolo Rossi, Guidetti, Filippi, Marangon, che contese addirittura lo scudetto alla Juventus.
Mi appassionai a quella squadra dal nome strano e dalla maglietta a righe bianche e rosse, diversa da tutte le altre.
E coltivai immediatamente, cresciuto in una famiglia dove il potere era considerato un simbolo di diseguaglianza sociale e contiguità col malaffare, il disprezzo per i potenti del calcio, quelli con la maglia banalmente bianca e nera.
Cominciai a giocare anche con gli amici del palazzo, sia in garage, dove si organizzavano partite vere e proprie, con un campo stretto e lungo e i piloni da dribblare, e invece i “passaggi e tiri” in strada, in una via allora periferica e poco trafficata.
La porta era delimitata dal cancello del garage, con tanto di sbarra superiore perfetta come traversa. Eravamo amanti del bello, e il fine ultimo era il gol spettacolare, la giocata di classe, possibilmente tutto al volo, senza far toccare terra al super santos.
Il quale sovente terminava la sua corsa nel garage limitrofo, appartenente ad un altro condominio, difficile da raggiungere per la presenza di spuntoni anti scavalco. Allora bisognava sperare nel pittore che lavorava nel box, il quale solitamente minacciava di “fidduliare” l’innocente pallone rosso.
Il pittore pazzo, così lo chiamavamo noi, non era l’unico nemico dei nostri pomeriggi calcistici in via Valplatani. Il principale erano i cani, o meglio le loro deiezioni. Il campo andava bonificato precedentemente attraverso la copertura delle merde con dei cartoni vecchi, il che non garantiva del tutto dal rischio di contaminazione della palla. Qualora capitava, occorreva stricare per bene la parte zozza di cacca contro il muro, fino a sostituire il marrone con il bianco della calce.
Ricordo che in una occasione ci sfuggì la presenza fecale sul super santos, e se ne accorse in ritardo Vincenzo, dopo uno dei suoi leggendari gol di testa, pagato con un pomeriggio di sciampi straordinari per togliere il residuo fisso dai capelli.
In pochi anni passai da ragazzino indifferente al calcio, a: collezionista di tutti i Guerin Sportivi, possessore degli Almanacchi annuali del calcio, spettatore assiduo di Novantesimo minuto, Domenica Sprint, Domenica Sportiva, conoscitore di tutti i risultati e i marcatori di serie A e B. Interrompevamo perfino le nostre giocate pomeridiane alle 18:30, per salire a vedere Tg2 Sportsera, nella speranza di vedere qualche gol dei campionati stranieri, una vera rarità. Sembra incredibile adesso, ma in quegli anni vedere un gol in televisione era sporadico quasi come trovare una tetta, per la quale si sperava nelle pagine interne di alcuni Espressi o Panorami.
Mi appassionai al Milan di Nils Liedholm, che vinse uno scudetto giocando senza centravanti e portando la marcatura a zona nel nostro campionato, così tanto che quando passò alla Roma ne diventai tifoso, certo che avrebbe portato lo scudetto anche nella capitale, facendo grande una squadra che in quegli anni navigava nelle zone basse della classifica.
Diventai anche un discreto giocatore, per via della velocità superiore, che nascondeva alcune lacune tecniche.
Il calcio in pochi mesi assunse una valenza notevolissima nella mia esistenza di pre adolescente, insieme alla letteratura umoristica, ai fumetti, e più dei primi cantautori che imparavo a conoscere.
Stiamo parlando di epoca pre calcetto, cosicché per giocare una partita di calcio vera, serviva una lunga preparazione fatta di squadre avversarie da trovare, telefonate per raggiungere il numero di undici elementi, campo (Malvagno o Castelnuovo, o, se si aveva l’aggancio, anche Gonzaga), da trovare libero e prenotare.
Poi, a poco a poco, spuntò l’erba sintetica, si riaprirono le frontiere agli stranieri, comparvero i primi peli sotto il naso, il seno alle ragazzine amiche di giochi, la scuola diventò più impegnativa, i Guerin sportivi riscuotevano meno attrazione dei Playboy, che comunque rimanevano rigorosamente vietati. Le automobili aumentarono, in maniera inversamente proporzionale alla voglia di giocare per strada.
Lo scenario, interno ed esterno a me, era in continuo mutamento, rapido e indifferente ai tormenti adolescenziali.
Restava immutato solo lo strapotere dell’odiosa Juve, vincente quasi sempre e quasi con tutti i mezzi.
Ci avessero detto in quegli anni che un giorno si sarebbe scoperto un maxi scandalo che l’avrebbe portata in serie B, dimostrando che molti dei favori non erano casuali, saremmo stati ragazzini più felici, fiduciosi nella giustizia.
Invece quando accadde, molti anni dopo, avevamo altro a cui pensare.