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– Ci ho pensato molto sai? In effetti devo dire che l’utilità della tua funzione, occasionalmente, è auspicabile. Benché sarebbe sempre opportuno che ciascuna tua iniziativa passasse sempre dal mio attento vaglio.
– Ma vai a cacare. Ma non ti rilassi mai? Minchia se non ci fossi io, sai che noia!
– Ecco, come sempre non rifletti sulle cose. Senza di me non sarebbe possibile andare avanti, trionferebbe il caos. Rassegnati, ma è così.
– Sai perché una cosa quando non va si dice che è sinistra? A causa tua, caro mio! Un sinistro è un incidente, rifletti su sta cippa!
– Questa tua affermazione non si basa su dati scientifici. È una delle tue uscite.
– E ci mancherebbe che pure io andassi alla ricerca di dati scientifici. Per queste cose pallose ci basti tu. Io sono gioia di vivere, emozione, creatività. In poche parole arte, caro mio.
– Tu sei solo immaginazione. Che senza raziocinio, il mio, non è che sogno astratto.
– Non so perché devi fissarti sulla tua importanza. Ma chi te la nega? Hai problemi di inferiorità nei miei confronti?
– Io? Ma figurati!
– Allora stai tranquillo. Se il Signore ha fatto il cervello con due emisferi, il mio e il tuo…
– …ti ricordo che l’esistenza del Signore è tutt’altro che provata. La scienza è l’unica fonte certa alla quale attaccarsi.
– Uffa! Che noia. Meno male che ci sono io. Chissà senza di me quando rimorchiavi. Forse ti potevi portare a letto signorina Gazzelli, la professoressa di scienze naturali.
– Ti ricordo che le mie conquiste sono superiori alle tue.
– No, le nostre conquiste sono uguali. E la prima mossa l’ho sempre fatta io.
– Se non era per me avrei fatto certe figuracce! Ma ti pare che uno conosce una ragazza e le chiede subito di uscire?
– No, figurati. Sta lì giorni a decidere se è il caso di chiamarla, quante possibilità di compatibilità ci sono, e nel frattempo quella se n’è uscita con tuo cugino.
– Senti, se io sono così è solo colpa tua.
– Colpa mia? È nuova sta storia?
– No. Se tu non mi avessi fatto fare un sacco di cazzate, se non mi avessi fatto soffrire, se non facessi tutto senza protezione, se la smettessi di sentire le emozioni senza pelle, dritte dentro le viscere, io forse adesso avrei meno lavoro.
– Potrei dire la stessa cosa.
– Tu? Sentiamo!
– Sei tu che mi freni, che soppesi ogni cosa, che valuti le conseguenze, come se le conseguenze si potessero prevedere, che pensi troppo prima di agire. Io devo riequilibrare, perché la vita è vento in faccia, graffi sulla viso e sul cuore, caro il mio razionalone!
– Sono io che consento di essere umani e non animali.
– E cos’hai contro gli animali? In fondo cosa siamo anche noi?
– Balle. La differenza allora tra un cretino e una persona intelligente la decido io, la mia metà. L’istinto ce l’hanno tutti. È nulla senza controllo.
– Che fai, pubblicità subliminale? Mi fai ridere. Non si vive senza emozioni.
– Si, forse hai ragione.
– No, ho sentimento.
– Ci ho riflettuto, in verità anche tu sei necessaria. Certo, non quanto me, però…
– Baciami e stai zitto, scemo!
– Si, però prima riflettiamo un attimo… No, cosa fai? Aiutooooo!

super santos

Da piccolo non mi piaceva il calcio.
Tutti gli altri bambini parlavano di Inter, Milan, Juve, e non riuscivo a capirne il senso.
Cioè, sapevo di che parlavano, ma non mi riuscivo ad appassionare. A casa mia nessuno lo seguiva, se non forse per qualche partita dell’Italia ai mondiali.
Ricordo vagamente un divano distrutto da mio fratello e i suoi amici in occasione di Italia Germania 4-3, giocata mentre io dormivo per via del fuso.
Anche le partite di calcio in garage, non mi davano nessuna emozione, ne restavo ai margini.
Poi, ad un certo punto, non so bene perché, provai ad incuriosirmi. Forse per non rischiare di essere completamente isolato da un mondo fatto di scambi di figurine, sfottò da tifosi, giocate di gruppo.
Andavo già alle medie, ricordo che il primo campionato che seguii fu quello del Lanerossi Vicenza dei miracoli, con Paolo Rossi, Guidetti, Filippi, Marangon, che contese addirittura lo scudetto alla Juventus.
Mi appassionai a quella squadra dal nome strano e dalla maglietta a righe bianche e rosse, diversa da tutte le altre.
E coltivai immediatamente, cresciuto in una famiglia dove il potere era considerato un simbolo di diseguaglianza sociale e contiguità col malaffare, il disprezzo per i potenti del calcio, quelli con la maglia banalmente bianca e nera.
Cominciai a giocare anche con gli amici del palazzo, sia in garage, dove si organizzavano partite vere e proprie, con un campo stretto e lungo e i piloni da dribblare, e invece i “passaggi e tiri” in strada, in una via allora periferica e poco trafficata.
La porta era delimitata dal cancello del garage, con tanto di sbarra superiore perfetta come traversa. Eravamo amanti del bello, e il fine ultimo era il gol spettacolare, la giocata di classe, possibilmente tutto al volo, senza far toccare terra al super santos.
Il quale sovente terminava la sua corsa nel garage limitrofo, appartenente ad un altro condominio, difficile da raggiungere per la presenza di spuntoni anti scavalco. Allora bisognava sperare nel pittore che lavorava nel box, il quale solitamente minacciava di “fidduliare” l’innocente pallone rosso.
Il pittore pazzo, così lo chiamavamo noi, non era l’unico nemico dei nostri pomeriggi calcistici in via Valplatani. Il principale erano i cani, o meglio le loro deiezioni. Il campo andava bonificato precedentemente attraverso la copertura delle merde con dei cartoni vecchi, il che non garantiva del tutto dal rischio di contaminazione della palla. Qualora capitava, occorreva stricare per bene la parte zozza di cacca contro il muro, fino a sostituire il marrone con il bianco della calce.
Ricordo che in una occasione ci sfuggì la presenza fecale sul super santos, e se ne accorse in ritardo Vincenzo, dopo uno dei suoi leggendari gol di testa, pagato con un pomeriggio di sciampi straordinari per togliere il residuo fisso dai capelli.
In pochi anni passai da ragazzino indifferente al calcio, a: collezionista di tutti i Guerin Sportivi, possessore degli Almanacchi annuali del calcio, spettatore assiduo di Novantesimo minuto, Domenica Sprint, Domenica Sportiva, conoscitore di tutti i risultati e i marcatori di serie A e B. Interrompevamo perfino le nostre giocate pomeridiane alle 18:30, per salire a vedere Tg2 Sportsera, nella speranza di vedere qualche gol dei campionati stranieri, una vera rarità. Sembra incredibile adesso, ma in quegli anni vedere un gol in televisione era sporadico quasi come trovare una tetta, per la quale si sperava nelle pagine interne di alcuni Espressi o Panorami.
Mi appassionai al Milan di Nils Liedholm, che vinse uno scudetto giocando senza centravanti e portando la marcatura a zona nel nostro campionato, così tanto che quando passò alla Roma ne diventai tifoso, certo che avrebbe portato lo scudetto anche nella capitale, facendo grande una squadra che in quegli anni navigava nelle zone basse della classifica.
Diventai anche un discreto giocatore, per via della velocità superiore, che nascondeva alcune lacune tecniche.
Il calcio in pochi mesi assunse una valenza notevolissima nella mia esistenza di pre adolescente, insieme alla letteratura umoristica, ai fumetti, e più dei primi cantautori che imparavo a conoscere.
Stiamo parlando di epoca pre calcetto, cosicché per giocare una partita di calcio vera, serviva una lunga preparazione fatta di squadre avversarie da trovare, telefonate per raggiungere il numero di undici elementi, campo (Malvagno o Castelnuovo, o, se si aveva l’aggancio, anche Gonzaga), da trovare libero e prenotare.
Poi, a poco a poco, spuntò l’erba sintetica, si riaprirono le frontiere agli stranieri, comparvero i primi peli sotto il naso, il seno alle ragazzine amiche di giochi, la scuola diventò più impegnativa, i Guerin sportivi riscuotevano meno attrazione dei Playboy, che comunque rimanevano rigorosamente vietati. Le automobili aumentarono, in maniera inversamente proporzionale alla voglia di giocare per strada.
Lo scenario, interno ed esterno a me, era in continuo mutamento, rapido e indifferente ai tormenti adolescenziali.
Restava immutato solo lo strapotere dell’odiosa Juve, vincente quasi sempre e quasi con tutti i mezzi.
Ci avessero detto in quegli anni che un giorno si sarebbe scoperto un maxi scandalo che l’avrebbe portata in serie B, dimostrando che molti dei favori non erano casuali, saremmo stati ragazzini più felici, fiduciosi nella giustizia.
Invece quando accadde, molti anni dopo, avevamo altro a cui pensare.

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Io amo la mia città.
Mi muovo in macchina, ma non mi lamento del traffico.
Se si sta bene con se stessi si sta bene anche col traffico. L’importante è adoperarsi alla bisogna, rendere le ore trascorse insieme a tanti altri simpatici concittadini inscatolati, del tempo utile, proficuo, interessante e divertente.
E in questo modestamente sono un professore.
Intanto ho dotato la mia Punto azzurra di un archivio immenso di cd. Sono in grado di ascoltare musica ininterrottamente per mesi, se ce ne fosse bisogno. Di ogni tipo.
L’altro giorno mentre andavo in palestra e dovevo percorrere tutta la via Notarbartolo, mi sono ascoltato le sinfonie di Schubert.
Tutte e dieci.
Non sono arrivato in tempo in palestra, ovviamente, ma non posso dire di essermi annoiato.
Ma oltre la radio e i cd, che ce li hanno tutti, io ho fatto montare una piccola biblioteca nel portabagagli, con un sistema meccanico che mi fa arrivare il libro che desidero nel mio abitacolo.
Per attraversare Sant’Erasmo mi è stato di grande compagnia Proust. Ho letto tutta La ricerca del tempo perduto, e mai titolo suonò più appropriato.
In via Leonardo da Vinci, mentre stavo leggendo Orgoglio e pregiudizio, mi sono sentito bussare sul vetro del finestrino. Pensavo che la fila si fosse rimessa in movimento, ma mi sembrava strano, di già, al capitolo sesto. Era una signora sui sessanta, distinta. Mi dice che le manca un quarto per un tavolo di burraco. Erano lei, l’uomo della smart, e un ragazzo con una polo. Non la maglietta, la macchina. Abbiamo fatto un tavolo sul mio cofano, e a poco a poco la gente si è avvicinata incuriosita. Alla fine abbiamo fatto un torneo con 12 cofani, con in premio per le prime tre coppie classificate due ruote di scorta, un cd di Gigi d’Alessio e un navigatore donato da un automobilista esasperato, che ha abbandonato l’auto svendendola a pezzi in via Leonardo da Vinci.
Se n’è andato camminando nell’unico spazio libero da macchine, il cantiere per il tram. Dopo una settimana è stato avvistato nei pressi del Forum, povero cristo.
È l’altra faccia dello stress, un approccio olistico e disincantato del caos metropolitano.
Mio cugino si è fidanzato in Via Crispi il mese scorso. Un colpo di fulmine con una trentaseienne disoccupata che aveva preso la macchina per andare a un colloquio di lavoro. Lui la vide piangere disperata e incolonnata e la consolò per un’oretta. Poi chiamò il bar vicino e si fece portare due prosecchi. Dopo quindici giorni convivevano nel monolocale di lei, all’Arenella. Non se ne hanno più notizie, credo li rivedremo quando i lavori stradali saranno terminati, se Dio vorrà.
Poi c’è gente che se ne approfitta. Io capisco che ci si possa annoiare nel traffico, a volte, se non si è organizzati come me. Però mettere i giornali ai finestrini per fare l’amore al Foro Italico mi è sembrato eccessivo. Vedere la macchina sussultare non è un bello spettacolo. Tra l’altro la fila è ripartita, e io non sapevo come fare per farli smettere e camminare. Tutti dietro di me suonavano, ma loro hanno creduto fossero soltanto i suoni tradizionali dell’ingorgo, i richiami erotici tra un automobilista e l’altro. Allora ho provato a tamponarli piano, per smuoverli un po’. Ma loro hanno tratto piacere da questo movimento supplementare e io li sentivo mugolare sempre più forte. Alla fine, visto che avevano tolto marcia e freno a mano, forse nella foga dell’amplesso, li ho spinti fino ad Acqua dei Corsari. Lui alla fine era tutto contento, diceva che trombare con la sua donna era come viaggiare nel tempo.
Poi abbiamo fatto amicizia, ci sentiamo per le feste, ci facciamo un colpo di clacson. Adesso hanno avuto due gemelli, due bimbi bellissimi. Si chiamano Corso e Tukory.
Che tenerezza.

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Gli anni 80 non sono uguali per tutti.
Come un quadro impressionista ognuno li guarda dalla sua angolazione. Ciascuno dalla sua prospettiva, con le sue esperienze, con la propria età.
Qualcuno negli anni 80 non era nato, altri erano già maturi, altri ancora navigavano nelle perigliose acque ormonali dell’adolescenza inquieta, quella delle primissime televisioni private che il venerdì sera concedevano inimmaginabili scenari erotici a orari proibiti.
Già, il sesso.
Questo sconosciuto.
Almeno per me.
Perché esiste un momento della vita nel quale sembra di stare in un documentario di Piero Angela sugli accoppiamenti della savana, con il mondo che tromba e tu che fai l’operatore. In realtà non è così, ma i compagni più scafati raccontavano balle sesquipedali per impressionare l’uditorio. A quindici anni trovare uno ancora vergine nella mia classe era mission impossible. C’era Carlo che a suo dire aveva perso la verginità grazie ad un’amica della mamma a dodici anni, e poi aveva collezionato una serie di conquiste che manco un idraulico in un film hard.
Poi si cresceva, e qualcuna ci stava veramente.
Oddio, non con me. Ma con i compagni più grandi, i ripetenti, si.
Solo che almeno io avevo un enorme pregio, agli occhi dei miei compagni già patentati e fidanzati: la casa al mare.
Di solito ci si andava quando ce la si buttava tutti insieme, il venerdì con 2 ore di matematica e due di fisica. Via con i motorini verso Aspra, sosta a Ficarazzi per il pane di casa caldo, e tutti al mare, in primavera, a casa mia a fare i primi bagni.
Un giorno Corrado, il più amico, il più toco dei miei compagni me lo chiese:
– Sai, con Rosanna non abbiamo dove andare. Non è che mi presteresti casa tua?
– Mah, veramente non so. Sai com’è, mio padre forse non vuole…
– Ma dai, nemmeno se ne accorge. Lascio tutto come l’ho trovato. Grazie grazie grazie!
Io non sapevo dire di no. Mi assicurai che Corrado non dicesse niente a nessuno, e gli diedi le chiavi. Dopo qualche giorno fu la volta di Sergio, e poi Fabio, Guido, Antonio.
Ormai ero fottuto. Non potevo dire di no a nessuno, pena l’esclusione dal gruppo.
Almeno mi feci ripagare in colazioni alla ricreazione. Calzoni fritti a gogò.
Cominciai a tenere un’agendina, la faccenda si era fatta complicata:
– Lunedì Carlo con Laura
– Martedì Francesco con Gabriella
– Mercoledì Sergio con Laura
– Giovedì Fabrizio con Laura…
A un certo punto feci una copia delle chiavi e la diedi a Laura, risparmiavo tempo.
Un giorno, visto che c’era un Venerdì vuoto, chiesi a Laura cosa facesse quella sera. Mi disse che era l’unica sera nella quale usciva col fidanzato.
Io ancora minorenne, un anno avanti a scuola, sognavo le gioie del sesso.
Pensavo che bastasse compiere diciotto anni per avere diritto a una ragazza, tipo la visita militare. Capii da allora e per sempre che la conquista era lacrime e sangue, e soprattutto concorrenza sleale nei confronti degli altri maschi.
Ma questo è un altro discorso.
Io ero molto amico di Giusi, una ragazzina coetanea che stava nel mio palazzo, un piano sopra il mio.
Era l’unica femmina con la quale interagissi in qualche modo. Lei mi raccontava tutto, in particolar le raccomandazioni di sua madre, un pippone sul valore della verginità, sull’importanza di preservarsi fino a quando non fosse stata certa che l’uomo amato era quello giusto, meritevole del dono prezioso a tutti negato.
A casa mia non si parlava mai di sesso. Qualcosa la intuivo dai miei fratelli più grandi, che si portavano delle ragazze e si chiudevano in stanza quando io volevo giocare con loro. Il gioco che mi facevano fare sempre era un gioco curioso, che ricordo ancora oggi: dovevo andare in cucina, dall’altra parte della casa, e contare fino a mille prima di farmi rivedere. Ma forse sbagliavo qualcosa, perché anche dopo avere contato fino a mille, tornavo e la stanza era ancora chiusa, chissà perché. Era un gioco con regole nettamente da rivedere.
Proprio per questo pudore familiare, condizionato dalle raccomandazioni della mamma di Giusi, applicavo anche io il teorema del valore virginale. Non che ce ne fosse sto gran bisogno, eppure proprio l’unica volta che, a una festa di compagni, Laura, forse per l’eccesso di alcool, forse per completare l’album, mi propose di appartarmi con lei, io le dissi che per me la verginità era un valore, e che ci tenevo a concedermi soltanto nei confronti della donna della mia vita.
Non capisco ancora, a distanza di anni, che cazzo avesse da ridere.

Il Quinto 5 RGB

Ho letto che studiosi insigni sostengono che il partner ideale, quello giusto, quello che cambia i pannolini e si sveglia di notte se il bimbo piange, quello che sa ascoltarti pure quando deliri, che non è gelosa se esci con una tua ex, che ti fa vedere la partita e anzi la vede con te, questa specie di creatura mitologica, metà Cameron Diaz e metà Margherita Hack, e con le due metà al punto giusto, questo mix tra Luca Argentero e Pablo Neruda, spunti al quinto tentativo.
Il partner ideale viene dopo il quarto.

Sono studi empirici, con esperimenti sul campo. C’è da crederci.
Appena ho appreso la notizia, riponendo una grande fiducia nella scienza, ho lasciato immediatamente Francesca.

Si, la amavo, ma perché perdere tempo con una quarta? Una quarta abbondante, non male, per carità, ma non era la quinta. Stava dietro le quinte, si direbbe.
Mi piaceva molto Laura. Sarebbe stata la quinta della mia vita, se si esclude un flirt delle elementari, ma credo che per gli studiosi quel tipo di relazioni non siano contemplate.
Anche io le piacevo, me lo confessò con mio gaudium magnum.
È latino, non c’entra il magnum mangiato all’intervallo del film al cinema Gaudium.
Solo che si palesò un grave problema.
Io per lei non ero il quinto, ma sarei stato il quarto.
Provai a contattare gli studiosi in questione, per vedere se una quinta e un quarto andavano bene, se il quattro poteva entrare nel cinque, senza che il resto avesse compromesso la buona riuscita della nostra unione.

Ma non mi rispose nessuno.
Quando ti servono, sti scienziati non si trovano mai.
Laura ebbe un’idea. Un’idea sulla quale io ebbi qualche perplessità.

Lei si sarebbe concessa ad Armando, uno storico corteggiatore, e poi sarebbe venuta con me, che nel frattempo ovviamente avrei dovuto attenderla, per non andare avanti nella numerazione attipo salumeria.
Lei si mise con Armando, e quando io, dopo due mesi, le chiesi di lasciarlo, per sancire il successo della nostra unione perfetta, lei obiettò, disse che non si poteva fare così repentinamente, che gli scienziati se ne accorgono che vogliamo pigliarli per il culo.
Mi disse di non essere impaziente, e soprattutto di non accoppiarmi con nessuna, altrimenti avrei alterato anni e anni di ricerche empiriche di dotti studiosi della materia.
Dopo altri otto mesi Laura mi chiamò, e io non stavo nella pelle per la felicità.
Mi disse che era sorto un problemino.
Che problemino?
Nulla di che, solo che Armando era partito per un viaggio di lavoro, e lei aveva dovuto chiamare il tecnico della caldaia per un mal funzionamento.
Il tecnico era una persona assai garbata, gentile e disponibile.
Forse fu troppo disponibile, perché si era fottuto il mio numero cinque.
In buona sostanza io avevo in mano il numero sei, alla faccia della scienza.
Laura piangeva, diceva che non avrebbe voluto che fosse finita così, che era un peccato dovere accantonare tutti i nostri progetti per un caldaista bonazzo.
Le dispiaceva anche lasciare Armando non per me, ma per il caldaista, che tra l’altro pare avesse avuto un sacco di donne, per cui la faccenda del quinto compagno andava a donnine allegre.
Alla fine Laura, tramite un cugino di Cosenza ricercatore al Cern, era riuscita a contattare uno degli autori della ricerca sul quinto, ottenendo una deroga alla teoria del numero cinque perfetto.
Una specie di corollario alla teoria, che non sarebbe andato ad inficiare l’impalcatura della ricerca. L’eccezione alla regola recitava pressappoco così: “Data una situazione di coppia, una trombata occasionale con un tecnico venuto a domicilio e/o chiamato per la bisogna, sia esso caldaista e/o idraulico, e/o fontaniere, e/o antennista, non è da considerarsi come numerabile tradizionalmente, bensì una sorta di 4 bis, per nulla indicato come compagno perfetto nella vita. In fede, ricercatore dell’uomo e/o donna perfetta numero due.”
Laura fu molto contenta, intanto perché occasionalmente potè incontrare ancora il caldaista senza per forza doverla considerare l’unione della vita, e poi perché io sarei sempre stato in pole position come quinto perfetto.
Adesso è trascorso un anno e mezzo, Laura aspetta il secondo figlio e io l’attendo ancora.
Anche se ho sentito parlare di una cosa che mi inquieta un minimo.
La cessione del quinto.

Ne sapete parlare?

smile
In tempi di crisi ho dovuto reinventarmi. Ho cambiato lavoro.
D’altronde bisogna essere pronti a prevenire i momenti difficili, e per quello che facevo io tirava una brutta aria.
Fino a pochi mesi fa io vendevo sorrisi. Non sorrisi industriali, quelli posticci e finti, ma espressioni singole personalizzate e tutte lavorate a mano dal sottoscritto.
Un lavoro come non se ne fanno più.
Modestamente sorrisi come i miei non erano tanti a saperli fare. Io ho l’arte, me l’hanno insegnata mio padre e mio nonno. Il vero sorriso non si fa solo con l’allargamento della bocca. Per quello sono bravi tutti.
Bisogna disegnare un movimento complessivo del viso, che parte dalle guance, ma che poi deve interessare il naso, gli occhi, le sopracciglia e a volte anche la fronte.
Intanto si devono allargare le narici, ma il naso non si deve contrarre verso l’alto, altrimenti sembra che avete trovato uno scarafaggio peloso sul cuscino. Ecco, proprio quel movimento che avete fatto adesso leggendo dello scarafaggio!
Bravi, adesso questo era un sorriso migliore, ma si può fare di più.
Va gettata un po’ d’aria sempre dal naso, ma non troppa da somigliare a un tricheco. Proprio un soffietto. Quasi un singulto.
Le gote si gonfiano un minimo, anche in maniera asimmetrica per quelli che prediligono il sorriso laterale, quello sornione e un po’ furbetto.
Gli occhi si strizzano, e quelli non mentono. Saprei riconoscere un sorriso finto in uno stadio pieno da una curva all’altra e bendato. No, forse bendato no, ma il concetto è chiaro.
Il movimento della strizzata di occhi aggrotta la fronte, e a volte alza appena il livello delle orecchie.
Il sorriso perfetto è un’arte, purtroppo che si è quasi del tutto perduta.
Fino a qualche anno fa avevo diversi clienti, sia all’ingrosso che al dettaglio. Poi ci furono solo i politici in campagna elettorale, i produttori di spot e di grandi show televisivi. Ma con quelli non ci ho mai lavorato, a loro della qualità del sorriso non gliene importa nulla, andavano sulla quantità e sul risparmio.
Poi c’era Berlusconi, ma quello aveva un suo fornitore di fiducia, il figlio di quello che vendeva i sorrisi a Carlo Dapporto.
Adesso vanno forte i produttori all’ingrosso di espressioni maschie, rudi, da uomo forte.
Il sorriso non lo vuole più nessuno, al massimo qualcuno ti chiede la risata sguaiata o quella sarcastica da talk show politico, da usare contro l’avversario. Roba tutta fatta in Cina, cucita dai bambini, cose che non ho mai voluto trattare.
Ora mi sono riciclato, costruisco risposte pronte, alla bisogna.
Il lavoro è completamente diverso, più impegnativo, meno artigianale. La risposta pronta è necessaria però, va via come il pane.
Solo che, per quanto pronte, ci vuole il tempo che ci vuole per preparare una risposta.
Cosicché non diventa più pronta, è una specie di risposta a scoppio ritardato. Magari una risposta bellissima, appropriata, ma inutile.
C’è crisi. Forse dovrò cambiare di nuovo lavoro.
Intanto mi sono rimasti un sacco di sorrisi invenduti, nuovi nuovi.
Interessa l’articolo?

laboratorio

– Pronto buongiorno. Mi scusi, la chiamo dall’Ufficio Organizzazione Risorse Umane. Avremmo bisogno di qualche minuto del suo tempo.
– Mi perdoni, ma vado di fretta, e non compro niente.
– Non mi sono spiegato, signore. Non deve comprare nulla, mi dovrebbe soltanto concedere qualche minuto del suo tempo.
– Ah si? Dovrei? E perché mai, di grazia?
– Perché siamo un servizio statale, e come cittadino lei è obbligato a rispondere alle nostre domande.
– Sennò che fate, mi mandate in galera?
– No, signore. Le mandiamo un’ispezione ministeriale. Poi la commissione suprema giudicherà il suo comportamento. Il tutto per non perdere pochi minuti al telefono con me. La saluto.
– E va bene. Ci sapete fare coi ricatti voi. Mi dica.
– Dunque. Stiamo lavorando al miglioramento della specie, creando le condizioni per la nascita di individui che consentano un salto di qualità, che possano garantire un futuro alla specie umana.
– Non ho capito una minchia.
– Un gruppo di ricercatori sta creando in laboratorio l’uomo perfetto, signore. Verranno impiantati artificialmente a una donna incinta, scelta tra milioni di donne, dei geni che possano far nascere l’uomo perfetto.
– E io che c’entro?
– Lei rientra tra gli individui in possesso di alcune caratteristiche ideali. Noi non possiamo trascurare nulla.
– Ma che è, un film di fantascienza? Che volete da me?
– Non si allarmi signore. Se collaborerà verrà adeguatamente compensato.
– Volete togliermi un pezzo di cervello?
– No signore. Nulla di cruento. Abbiamo solo bisogno di alcune informazioni.
– Guardi, mi trova leggermente spiazzato. Da un lato mi fa piacere che abbiate cercato me. Sapevo di avere delle qualità, ma non pensavo addirittura di contribuire a formare l’uomo ideale. Però non so…
– Abbiamo fatto delle ricerche su di lei. Sappiamo che non naviga nell’oro, che qualche migliaio di euro non le dispiacerebbero.
– Quante migliaia? Giù le carte, signor lei!
– Abbiamo la possibilità di arrivare fino a dieci.
– Venti o non se ne fa niente.
– Mi dispiace, allora. Contatteremo uno dei sette individui con le caratteristiche simili alle sue, signore. La saluto.
– Ma che saluta, aspetti! Quindici?
– Dieci o chiamo il signor Quartullo.
– E lei preferirebbe uno che si chiama Quartullo a me?
– Per cinquemila euro si.
– Dodici?
– Dieci.
– Che palle. Va bene. Sono sempre meglio di un pugno in un occhio. Però niente operazioni e cose cruente. Se dovete prendere il mio fascino, il mio humor, la mia simpatia, dovrete farlo in altri modi, sia chiaro.
– Niente di tutto questo, signore. Io mi occupo delle caratteristiche minori, dei particolari che migliorano un uomo. Quelli però che fanno la differenza. Per le qualità principali ci abbiamo già pensato da tempo.
– Ah si? E quindi da me cosa volete?
– La ricetta del suo spezzatino.
– Il mio spezzatino?
– Si signore. Diecimila euro per una ricetta penso che possano bastare.
– Ma com’è quest’uomo perfetto, mi scusi?
– Guardi, non posso dirle molto. Avrà curiosità, cultura, buon senso, pacatezza, intuito, simpatia, intelligenza, senso dell’umorismo, buon gusto, manualità, intraprendenza, altruismo.
– E basta?
– No. Per essere perfetto, come le dicevo, fanno la differenza i particolari. Sarà anche uno sportivo ma non un fanatico, un laico ma rispettoso delle varie religioni, un fedele compagno ma rispettoso dei libertini, avrà un tocco di arte ma anche di lucida follia, non sarà noioso ma neppure superficiale, saprà passare lo straccio ma negato a stirare le camicie, non farà politica ma odierà i populisti, sarà bello ma non un adone, guiderà male la macchina ma andrà in bicicletta, saprà baciare ma senza esagerare.
– Senza esagerare?
– Senza.
– E lo spezzatino?
– A quello ci deve pensare lei. Se mi dice di si. Altrimenti farà lo spezzatino come Quartullo.
– Non sia mai!
– Guardi che abbiamo ottime referenze anche su Quartullo. Se lei non mi avesse risposto al telefono sarei passato direttamente a lui. Che tra l’altro ci mette anche i piselli.
– Mi spiace, o piselli o patate.
– Conosciamo la sua teoria, signore. Se vuole mollare la ricetta faccio partire il bonifico.
– No, per telefono mai. Non mi fido.
– Controlli il suo conto, signore. C’è già la somma.
– Ci devo pensare.
– No, mi spiace. Non c’è tempo.
– Non posso farcela.
– Ho Quartullo sull’altra linea, si sbrighi.
– Si fotta, lei e Quartullo. Il mio spezzatino resta top secret.
– Come vuole signore, peggio per lei.
– No, peggio per la scienza. Nascerà un uomo imperfetto. Che bacia senza esagerare, non sa stirare le camicie e mette i piselli nello spezzatino. Povere generazioni future.
– Addio signore. Le revoco subito la somma.
– Meglio poveri che venduti.
– La saluta Quartullo. E la ringrazia.
– Coi piselli ma senza palle.

commissario
– Mi vuole raccontare esattamente cosa è accaduto, signor Cusimano? Lei cosa ha visto?
– Commissario, io glielo dico cosa ho visto, però lei non deve interrompermi.
– Se la interrompo o no lo decido io, Cusimano! Lei risponda alle domande e stia al suo posto.
– Si, però le devo dire una cosa.
– Cosa?
– Cosa cosa?
– Cosa mi deve dire, Cusimano?
– Scusi, ma lei chi è?
– Senta, qui le domande le faccio io. Sta cominciando a indispettirmi con questo atteggiamento provocatorio. Io sono il commissario, e lei fa quello che dico io.
– Ah, si. Certo, commissario. Le volevo dire che io ho un problema alla memoria a breve termine. Non trattengo i ricordi recenti, abbia pazienza.
– E io dovrei crederle, Cusimano?
– Credere a cosa?
– Oddio, qui non ne usciamo. Se mi accorgo che mi prende per il culo la sbatto dentro. Forza, mi racconti tutto quello che sa.
– Si, certo. Io stavo portando la mia radio a riparare. È un vecchio Philips a cassette, superato dal tempo e dalla tecnologia. Però io ci sono affezionato, e anche se non mi conviene lo riparo sempre, tutte le volte che si guasta. Mentre attraversavo la piazza, ho veduto una macchina che ha sgommato e dalla quale sono uscite quattro persone. Tre di loro si sono messe il passamontagna e sono entrate nella banca.
– E il quarto?
– Quale quarto?
– Manca un quarto.
– Ah, grazie. Io a meno dieci devo essere a casa. La saluto.
– Ma che saluta? Il quarto uomo, dicevo!
– Ah, si. Io stavo portando la mia radio a riparare. È un vecchio Philips a cassette, superato…
– …dal tempo e dalla tecnologia. Lo so.
– Ah, pure lei ne ha uno, dottore? Allora sa di cosa parlo.
– Come no, ma mi dica dell’automobile. Si ricorda il tipo?
– Certo. Vuole che non conosca la mia macchina? Una panda marrone. Vecchio modello, però. Ma cammina alla grande. Almeno in città, perché altrimenti comincia a fare un fischio curioso…
– Basta, Cusimano! Lei e il suo fischio del cazzo.
– Ma come si permette? Chi la conosce, scusi?
– Io sono il commissario, porca puttana. E lei è un testimone chiave. Anche se sto cominciando a sospettare che lei voglia coprire qualcuno. O mi racconta tutto o la sbatto in cella, così le torna la memoria a breve, a lungo e a lunghissimo termine!
– Commissario, bastava dirlo, senza alterarsi. Le racconto tutto dal principio: stavo andando a riparare la mia radio. Sa, un vecchio Philips a cassette, superato dal tempo…
– E dalla tecnologia di sta minchia. E lei c’è affezionato, e lo ripara. Poi attraversa la piazza, e vede una macchina che sgomma e dalla quale escono quattro persone, tre di loro hanno il passamontagna…
– E il quarto?
– E che cazzo ne so, Cusimano, me lo dica lei se aveva il volto scoperto.
– Non lo so, sembrava così preparato, dottore. Se le cose le sa, non capisco perché debbo raccontargliele io.
– Perché mi piace il suo tono, va bene? Ci tengo che sia lei a narrarmi i fatti. Vada avanti. Ma non mi parli della radio Philips perché gliela sbatto in testa.
– E lei non mi interrompa, dottore. Dunque: della radio gliel’ho detto, della macchina pure, dei quattro uomini anche, della donna con il cappello complice che gli aperto la porta anche…
– No! Quale donna? Chi era? Come era fatta? L’ha vista in faccia?
– Chi?
– La donna, Cusimano!
– Quale donna?
– La porta, Cusimano!
– Ah, si, mi scusi. Gliela chiudo subito.
– Ma non quella porta, si sieda! La porta della banca. Gliel’ha aperta una donna si o no?
– Si, certo. Ma non è che le posso ripetere le cose cento volte! Se le appunti, se non se le ricorda.
– Adesso me le segno. Lei mi dica se la saprebbe riconoscere, quella donna.
– Beh, penso di si. Almeno, se la rivedessi, immagino di si.
– Aveva un tailleur? Una gonna? Dei pantaloni?
– Ma chi, io? No, ero con i miei jeans, come sempre.
– Cusimano, qui risultano ventisette chiamate alla polizia tutte dal suo numero nel giro di cinque minuti intorno alle 17. Voleva farci impazzire o cosa?
– Cosa?
– Che fa, mi prende per il culo?
– Non mi permetterei mai. Neppure la conosco.
– Cos’altro mi sa dire di utile alle indagini, Cusimano? Io non ho la giornata intera da potere perdere con lei.
– Nulla che lei non sappia già, dottore.
– Vabbè, io non ce la faccio. Senta, Cusimano, sia gentile. Vada a casa, scriva su un foglio tutto quello che ricorda, e domani me lo fa avere.
– Come vuole dottore. Arrivederci.

– Dottore?
– Cosa c’è ancora, Cusimano?
– Non vorrei disturbarla, ma uscendo ho visto che lei sta in questo palazzo dove c’è l’insegna della polizia. Siccome ieri ho assistito a una rapina, non è che sa a chi potrei rivolgermi per testimoniare?

charlie

Quando un uomo con la matita
Incontra un uomo con la pistola
Dev’esserci un errore.
Qualcuno ha invaso il campo,
l’incontro è da annullare,
il pensiero da salvare.
Quando un uomo con la matita
Incontra un uomo con la pistola
Qualcosa non ha funzionato,
un corto circuito del campionato,
un errore del creato.
Mettiamo un killer contro un poeta,
un kamikaze su uno scrittore,
diamo un cantante ad un picchiatore,
ed un violento sfida il pittore.

Quando un uomo con la matita
Incontra un uomo con la pistola
Già lo si sa che non c’è partita
Ed è un finale che non consola.
Oltre al sangue di quegli artisti
Resta per terra l’indignazione
È un grande giorno per i razzisti
Il trionfo della semplificazione.
Di chi va urlando che son schifosi
Un popolo intero da condannare
Però che i siculi sono mafiosi
è una cosa che lo fa incazzare.

Quando un uomo con la matita
Incontra un uomo con la pistola
Ogni speranza sembra finita
Qualunque logica resta sola.
Perché è più rapido devastare
Togliere vite, idee e parole
E l’arte libera fa incazzare
Chi cose libere non ne vuole.

Quando un uomo con la matita
Incontra un uomo con la pistola
Per sanare questa ferita
Non resta poi che una cosa sola:
unire l’arte, svegliare i cuori
salvaguardare tutti gli attori;
gli artisti, i guitti, scrivani e affini
senza barriere e senza confini.
Perché quell’uomo con la pistola
Ammazza gli uomini con le matite
Ma l’urlo d’odio gli resti in gola
Bellezza e genio sono infinite.